“Ai progetti bisogna voler bene” (cit. Massimo Carraro, ispirazione Tara Hunt con un pensiero perfino a Primo Levi).

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[Dalla newsletter personale del nostro fondatore]

Che domanda strana, eh? Eppure secondo me è sensata. Molto.

Ma devo fare una premessa.

Questa volta, qui, non parliamo solo di Coworking: in fondo, per quello che sto per dire, l’ultima parola del titolo avrebbe anche potuto essere diversa.

Perché voler bene a un progetto può fare la differenza. Sempre.

In molti, ormai, ci siamo resi conto che l’esasperazione speculativa dei progetti non funziona più (o magari funziona per un po’ e poi tocca inventarsene un altro).

In molti (anche se sempre troppo pochi), ci siamo resi conto che le risorse che abbiamo a disposizione non sono infinite… ergo serve togliere rilevanza all’ossessione verso il profitto economico.

Tara Hunt

C’è dell’altro che può comunque contribuire sia al portafogli sia alla soddisfazione di guardarsi allo specchio la sera.

In molti ci stiamo impegnando in progetti che hanno nella sostenibilità il loro fulcro concettuale.

Progetti che sanno capire la dimensione economica, ma che non ne sono schiavi.

In tutto questo, cosa c’entra il voler bene al Coworking?

C’entra, perché il Coworking rappresenta una di quelle progettualità che possono avere una dimensione affettiva forte, che conta tanto quanto il bilancio d’esercizio.

Sono queste attività (e questi Coworking), molto spesso le situazioni di maggiore qualità, quelle di vera eccellenza nel servizio.

E non mi riferisco tanto alla famosa frase di una delle pioniere americane del Coworking, Tara Hunt, fondatrice del mitico Citizen Space, quando disse “Coworking is a labour of love”… mi riferisco più a chi lavora ogni giorno per anni avendo a cuore – nel profondo – null’altro che un lavoro fatto bene.

Perché? Perche lo ama.

C’è una parte, nel lavoro di eccellenza, che richiede un’attenzione particolare. Quell’attenzione a ciò cui vuoi bene.

San Francisco, 2006: lo spazio Coworking “Citizen Space” fondato da Tara Hunt, Chris Messina e Brad Neuburg

Non voglio con questo dire che al lavoro occorra affezionarsi e provare sentimenti normalmente (giustamente) riservati alle relazioni umane…

Voglio però richiamare l’attenzione sulla differenza sostanziale che si percepisce in quelle situazioni dove chi ha la responsabilità di un progetto ci tiene, ci tiene davvero, ci tiene anche oltre quello che può essere il ritorno economico.

Passione?

Chiamiamola passione, se vogliamo, a me piace di più dire che “a quel lavoro tu vuoi bene”… comunque siamo lì, da quelle parti.

Magari a qualcuno sembrano romanticherie, ma so di cosa parlo (lo sapeva anche Primo Levi: se avete letto il suo romanzo “La chiave a stella”, pensate al montatore meccanico Tino Faussone e ci siamo capiti).

Avete mai avuto a che fare – ad esempio – con una impresa familiare?

Se sì, avete certamente incontrato la tigna, la caparbietà, ed anche l’affezione profonda verso il proprio mestiere, o negozio, o attività che sia.

Io mi sono fatto questa idea – anche a leggere biografie di persone importanti, o guardando negli occhi persone… ugualmente importanti ma non conosciute.

Ai progetti che sono importanti per te, tu vuoi bene. E si sente.

Talvolta, diventa questo il fattore X che ti fa decollare.

Ma parliamo di Coworking

Io lo gestisco, un Coworking, in società con mia moglie.

Lo faccio da 16 anni, e ho avuto tutti gli alti e tutti i bassi che vi potete immaginare.

La pandemia, per dirne una, ha lasciato ferite che in certe giornate ancora fanno male, a livello economico.

Ne ho viste di tutti i colori… da quando – era il 2008 – il nostro spazio era l’unico in Italia, ad oggi, in cui ci sono più Coworking che uffici postali.

Se avessi amato meno questa attività, non l’avrei mai portata avanti.

Ma fortuna ha voluto che me ne innamorassi, e quindi ho imparato a mettere nella giusta prospettiva tutto quello che mi capita, “filtrando” gli eventi e le sfide di ogni giorno attraverso una sensibilità un po’ speciale.

Proviamo a definire “un po’ speciale”? Quella cura, attenzione e anche – perché no – puntigliosa mania di decoro, piacevolezza e comfort lavorativo, dedicati ogni giorno alle persone che scelgono il mio Coworking.

Tutte cose che non sono dettate solo dal conto economico, ma anche dal conto di… quello che si prova, quello che sembra giusto fare, alla luce di una relazione con unə professionista che sta utilizzando il tuo spazio condiviso.

Non mi fraintendete: non è che il mio modo di fare Coworking si dimentichi del profitto economico, tutt’altro.

Ma ha trovato il modo di coniugare relazione, costruzione di community, sviluppo di networking con un approccio in grado di tenere sotto controllo i conti, e farli crescere.

Un lusso? Forse, ma – credetemi – conquistato sul campo, e duramente.

Ed eccoci di nuovo: se non lo avessi amato, questo lavoro, quel “duramente” sarebbe stato insormontabile, e invece.

Eccoci qui, a 16 anni abbondanti dal primo giorno di Coworking, con ancora la voglia, il piacere, il gusto di lavorare (e 98 recensioni positive su Google).

A me non sembra poco, a voi?

E poi c’è un altra cosa: il senso del lavoro

Domanda:

Quanti di noi possono dire di fare un lavoro che ha senso?

E quanti invece masticano amaro tutti i santi giorni per portare a casa una pagnotta?

Ahimè lo sappiamo: i secondi sono molti più dei primi.

Anche a questo serve riuscire ad amare il proprio lavoro: a dargli un senso.

Personalmente – ma so di essere in ottima compagnia, perché Rete Cowo® è molto estesa e tanti colleghi la vedono come me – ritengo che il Coworking sia una di queste occupazioni, in grado di farti sentire che hai un senso, che quel che fai ha significato per le persone, e in quanto tale è un lavoro a cui vuoi bene.

Alla prossima newsletter, e grazie di avermi letto.

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